Per quanto sempre più popolare, il kitesurf rimane uno sport estremo e i praticanti possono andare incontro a lesioni, più o meno gravi. Ma qual’è il reale impatto di questa disciplina sui praticanti a livello traumatico? Alcuni ricercatori, come Chiara Carlin e Roberto Paiano, raccontano i loro studi in materia. Non senza qualche sorpresa.
Agli inizi il kitesurf era uno sport estremo e pericoloso. Le attrezzature erano ancora sperimentali e i sistemi di sicurezza praticamente inesistenti. Si veniva trainati da ali nervose, spesso incontrollabili di cui non si poteva ridurre la potenza. Gli errori dei rider, ma anche i colpi di vento o semplicemente il trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato potevano costare caro. Anche le scuole e i percorsi didattici erano ancora pionieristici. Gli incidenti erano frequenti, anche quelli gravi.
Oggi a distanza di oltre 20 anni è tutta un’altra storia. Evoluzione dei materiali, progettazione tecnologica, cultura della sicurezza, didattica aggiornata hanno reso la disciplina semplice e veloce da imparare, adatta a tutti e diffusa praticamente in tutto il pianeta. Gli incidenti ancora ci sono naturalmente, ma sono attribuibili nella stragrande maggioranza dei casi a comportamenti sbagliati o comunque avventati dei kiter. Lo studio dei casi più clamorosi porta sempre all’errore umano.
Studi scientifici nati dalla passione per questo sport
Quello che invece è sempre più evidente è l’impatto traumatico della disciplina sugli appassionati e gli atleti. Il kitesurf per quanto sempre più popolare rimane infatti uno sport estremo ad alto tasso di adrenalina e con un profilo acrobatico importante. Salti, manovre, velocità, cadute sollecitano inevitabilmente i rider che pur praticando allenamenti a terra, riscaldamento e sessioni di stretching che limitano e prevengono i danni, possono sempre andare incontro a piccoli traumi e lesioni. Gli studi scientifici in materia ad oggi sono ancora rari, ma qualcuno comincia ormai a interessarsi seriamente al problema.
Certi lavori di ricerca nascono proprio dalla passione per il kitesurf vissuta in prima persona, come nel caso di Chiara Carlin, Laureata in Scienze Motorie all’Università di Milano e Fisioterapista e di Roberto Paiano, Fisioterapista con un Master Executive in Fisioterapia applicata allo Sport frequentato presso l’Università di Siena.
Lo studio sugli infortuni di Chiara Carlin
Chiara ha scoperto il kitesurf nel 2009, all’età di 27 anni, su una spiaggia della Sardegna. Dalla pratica personale di questo sport, dai racconti ascoltati in spiaggia e dagli episodi a cui ha assistito di persona, negli anni ha maturato l’idea di sviluppare uno studio sugli infortuni legati al kitesurf e scriverci la sua tesi di laurea. “È stato un lavoro di ricerca durato mesi – racconta Chiara – nel quale mi sono confrontata con una bibliografia in materia quasi inesistente e studi relativamente datati, per cui del tutto obsoleti in termini scientifici. I dati più interessanti, mi sono resa conto, erano quelli estrapolati da alcuni forum sul web: un mondo sconfinato e per me tutto da esplorare. Così è nata la sfida”.
La prima fase del lavoro di Chiara era quello di ottenere una statistica degli eventi traumatici legati alla pratica del kitesurf. Come? “Ho sviluppato un questionario di 80 domande – spiega la ricercatrice – che ho somministrato telefonicamente a un campione di volontari. Lo scopo del questionario era di definire la tipologia degli infortuni più comuni, come sono avvenuti e di correlarli con il livello di esperienza del kiter, nonché di definirne la gravità in funzione dei giorni di astensione dalla attività. Alla fine ho raggiunto 80 persone, di cui 61 si sono prestate all’intervista”.
Traumi e infortuni da stress, i rischi più comuni
Ebbene, quali sono i risultati conclusivi di questo studio? “Il 92% dei soggetti – dice Chiara – ha riportato almeno un infortunio nella propria vita da kiter. Di questo, il 97% degli infortuni è imputabile a un evento traumatico, mentre il 3% a uno stress reiterato nel tempo, che, in termini tecnici, viene definito “overuse”. La maggior parte degli infortuni ha avuto luogo in fase di navigazione e il meccanismo lesivo più comune risulta essere l’impatto, sia con la terra che con l’acqua o la tavola. Il vento rafficato è uno scenario comune degli incidenti, mentre l’errore umano, la mancanza di concentrazione e la stanchezza sono stati spesso fattori decisivi. Le ginocchia, le costole, le tibie, i polpacci e i piedi sono le aree del corpo maggiormente implicate. Le lesioni cutanee, ossee e articolari sono le più ricorrenti. Infine il 35% degli infortuni riportati rientra nella categoria delle lesioni minime (che non comportano astensione dalla pratica), il restante 65% è incluso tra le lievi e le gravi (che comportano da 1 a oltre 11 giorni di astensione)”.
Altri elementi che emergono dalla ricerca di Chiara Carlin sono il mancato rispetto delle regole di sicurezza da parte dei kiter che hanno riportato traumi, come per esempio non indossare giubbotti salvagente o impact che avrebbero potuto ridurre o addirittura evitare l’infortunio. E ancora il mancato rispetto delle prognosi fatte dal personale medico, così come la propensione a improvvisarsi medici e a procedere a cure approssimative da parte dei kiter.
Roberto Paiano: “Le mie ricerche partite dalle competizioni”
Anche l’interesse di Roberto Paiano per gli aspetti traumatici del kitesurf è nato sull’onda della propria passione per questa disciplina che non solo pratica, ma insegna in qualità di istruttore qualificato Iko. Il campo di azione dei suoi studi, a differenza di Chiara, è stato però il mondo delle competizioni. “Durante il Campionato Mondiale e la Foilcup 2015/16 svoltesi a Gizzeria Lido (CZ) – racconta Roberto – ho prestato servizio per tutti gli atleti in qualità di fisioterapista e ho potuto raccogliere una serie di dati che in seguito ho sviluppato in un primo studio intitolato “Dolore anteriore di ginocchio ed utilizzo dei boots nella pratica del kitesurf: reale correlazione o chiacchiere da spiaggia?”.
Obiettivo di questa interessante ricerca era stabilire se esistesse una maggiore probabilità di sviluppare dolore da sovraccarico nella parte anteriore di ginocchio per gli utilizzatori abituali di boots nella pratica del kitesurf. La conclusione dello studio è stata alquanto sorprendente: “Non solo non c’è correlazione tra utilizzo dei boots e questo tipo di patologia – spiega Roberto – ma è plausibile come gli stessi boots possano addirittura risultare “protettivi” in relazione alla migliore stabilità che conferiscono all’articolazione della caviglia”.
Obiettivo: l’approccio analitico sui dati
Convintosi a proseguire con altri studi scientifici in questo settore, Roberto si è concentrato sul metodo di lavoro delle proprie ricerche sforzandosi di coltivare un approccio analitico. “In termini di affidabilità delle informazioni ottenute dai rider – afferma Roberto – uno studio prospettico è superiore a uno retrospettivo perché quest’ultimo contiene in sé un vizio di forma dovuto alla memoria, ossia si chiede all’intervistato di rievocare eventi passati perdendo così dati che per il singolo soggetto potrebbero non essere importanti (ad esempio se l’anno scorso mi sono rotto una gamba me lo ricordo, ma potrei aver dimenticato di aver avuto un qualsivoglia dolorino per due giorni). Con uno studio prospettico invece il ricercatore monitora costantemente gli atleti e può di volta in volta approfondire il quadro sintomatologico in atto”.
L’importanza dei volontari oggetto d’indagine
Definito il metodo di lavoro scientifico, attualmente Roberto Paiano sta promuovendo uno studio intitolato “Disturbi muscoloscheletrici durante la pratica del kitesurf: studio pilota prospettico”, il cui obiettivo è mettere in evidenza sovraccarichi più o meno ricorrenti e capaci di generare le cosiddette “patologie da overuse” ampiamente conosciute in altri sport. “Il campione preso in esame – racconta Roberto – sarà di circa 50 praticanti, ai quali verrà inviato un questionario mensile, per capire quanto eventuali dolori o fastidi possano influenzare la qualità della vita e l’attività sportiva nella settimana immediatamente precedente e con l’impegno sia di rispondere per tutti i 10-12 mesi di studio, sia di comunicare tempestivamente eventuali problemi intercorsi nel periodo delle tre settimane rimaste fuori dall’indagine.
Ad oggi Roberto Paiano sta raccogliendo i dati anagrafici e i consensi informati da parte dei volontari che intendono prendere parte a questo progetto. “Partecipare – spiega il ricercatore – significa dare il proprio contributo al progresso della scienza e del kitesurf e offre il vantaggio di un contatto privilegiato con il mondo della ricerca scientifica applicata a questa affascinante disciplina sportiva. Mi piacerebbe che siano proprio le federazioni a promuovere tali iniziative in futuro”.
Studi come quello di Chiara Carlin e Roberto Paiano, sono un bell’esempio di come coniugare passione e lavoro e oltre ad alimentare la ricerca scientifica di settore, sono importanti per una pratica sempre più consapevole del nostro amato sport. Speriamo in molti seguano la loro strada!
Davi Ingiosi