Il kitesurf è facile, è veloce, è alla portata di tutti, ma allora perché alcuni proprio non ci riescono? Le attrezzature aggiornate, le scuole professionali, i metodi didattici, i video su Youtube, sono tutti passaggi importanti, ma c’è qualcosa che nessuno vi dice e che fa veramente la differenza. Io ho una mia teoria…
Qual’è la differenza tra provare e riuscire? Cosa realmente divide il tentativo di apprendere una nuova disciplina, una manovra originale, un gesto atletico a cui il nostro corpo non è abituato e l’atto concreto di farli nostri, padroneggiarli definitivamente? È una riflessione che mi è venuta mentre cercavo di imparare l’Hydrofoil. La tavola con queste appendici alari che permette di volare a pelo d’acqua ha sempre esercitato un fascino enorme su di me. Da velista prima che kiter, mi sembra l’ultima frontiera della vela ma anche dell’andare per mare, il suo stato dell’arte più avveniristico. Aggiungeteci che questa attrezzatura permette di uscire anche in condizioni di light wind, quando tutti gli altri kiter rimangono in spiaggia e il gioco è fatto: la voglia di impararlo è diventato per me qualcosa di non più procrastinabile.
E allora eccomi qua, a tornare principiante, ancora una volta. Ma io amo imparare. Credo sia il segreto per capire il mondo, esplorare noi stessi e restare giovani. Ma imparare, in generale, può essere duro.
Condizioni errate e “dolci” distrazioni. Così non va…
Il mio apprendistato con l’Hydrofoil è iniziato qualche anno fa in Sardegna nella spiaggia di Porto Pino. Con me c’era l’amico Alessandro Ferro, istruttore Iko e titolare della scuola Kitesurf Sardinia School. Anche lui stava imparando sia per piacere personale che per esigenza professionale ed era un ottimo sparring partner. Usavamo un Dolphin RRD, tanto volume, un po’ pesante. Mi diede vari consigli su come “domare la bestia”, ma in quell’occasione in realtà conclusi poco per via del vento forte e della paura di farmi male.
Poi nel 2018 andai con il team di F-One a Dakhla in Marocco. I francesi avevamo organizzato l’International Meeting nel mese di ottobre proprio per sfruttare i venti leggeri della laguna in mezzo al deserto e presentare i nuovi Hydrofoil in catalogo. Per noi giornalisti quella settimana di test in acqua divenne un’occasione eccezionale di conoscere ancora più a fondo queste attrezzature e per chi, come me, era un principiante assoluto, una full immersion per imparare la tecnica. Nonostante il team di progettisti e rider a nostra disposizione, le barche di supporto pronte a soccorrerci e il clima conviviale, fu lo stesso una faticaccia mettermi in piedi su quello strano arnese. Il piantone corto da 60 cm aiutava parecchio, così come la tavola tipo “skate” dal volume contenuto. Feci degli schianti clamorosi, presi delle belle botte agli stinchi e ai piedi, rischiai anche di tagliarmi la faccia, ma alla fine riuscii a conquistarmi i primi bordi. Non erano proprio a mezz’aria però. A complicare il tutto arrivò una “cotta” per una ragazza tedesca con cui condividevo l’apprendimento. Era più brava di me, un corpo flessuoso e un sorriso-killer che non perdeva l’eleganza neanche nei crash più plateali. Ci facevamo un sacco di risate e la voglia spudoratamente interessata di aiutarla prese il sopravvento sulle mie progressioni.
Il mio Hydrofoil, la mia guerra
Sono tornato a casa comunque soddisfatto dell’esperienza e ormai totalmente preso da questa disciplina. Ma mi mancava comunque il grande salto. Sentivo che la sfida era solo iniziata. Io volevo “volare” davvero. Così alla prima occasione ho comprato il mio Hydrofoil, un Double Agent Cabrinha del 2018 con doppio piantone, da 60 cm e da 90. Quindi ho ripreso la mia battaglia personale. Del resto tra caschetto, impact, calzari, parastinchi e muta, cos’altro posso sembrare se non un perfetto guerriero del mare?
Armatura a parte, non parlo di guerra a caso. Imparare qualcosa di nuovo e fisico come l’Hydrofoil può essere una piccola o grande battaglia, anche interiore. Una sfida contro le nuove attrezzature da gestire, l’instabilità, l’assetto completamente diverso dal kitesurf standard, ma anche contro il senso di smarrimento, la frustrazione, la paura di farsi male. Imparare in generale è un po’ una guerra perché vuol dire abbandonare quello che si sa fare e andare un passo indietro, rimettersi in gioco, tornare al punto di partenza. Non è da tutti. Ma chi lo fa, deve accettare tutto questo.
Quelli che vogliono vincere e tutti gli altri
Di una cosa ero certo. Questa sfida dovevo combatterla e vincerla da solo. Avevo avuto tutte le dritte, il supporto degli amici, le lezioni degli istruttori, i video tutorial su YouTube. La cornice del perfetto apprendimento c’era tutta, era lì davanti a me. Mancava però l’ingrediente principale, cioè io. Ossia il mio voler vincere. La mia motivazione a superare le difficoltà, a mettere da parte le distrazioni, ad esercitare l’arte della pazienza, a gestire i punti critici tecnici e personali, a lavorare su ogni elemento con sforzo, rigore e sacrificio. Insomma la voglia di sbatterci la testa con una sacrosanta certezza: che tutto questo lavoro un giorno mi avrebbe ripagato. Non sapevo come né quando. Dipendeva da me appunto.
La domanda è: quanto siamo disposti a lasciare sul tavolo da gioco dell’apprendimento? A scommettere su noi stessi? A mettercela davvero tutta pur di vincere? Può essere imparare l’Hydrofoil che in fondo è una piccola sfida, ma anche qualcosa di molto più grande, che ha a che fare con la vita.
Imparare è lavorare sodo, non un pic nic
Alla fine sono riuscito a domare quella dannatissima tavola con le sue appendici taglienti come lame di samurai. E come ero sicuro, da maledetto toro imbizzarrito si è trasformata in un bellissimo cavallo alato. Ma sono stato io a compiere quella trasformazione. Non solo le lezioni, le dritte, i video. Solo io con il mio sudore, la mia fatica, il sangue dalle ferite che mi sono procurato. Nulla è finito naturalmente e la mia battaglia è ancora lunga. Ma voglio dirvi una cosa. Io sono del 1974. Forse l’ultima generazione che ha toccato con mano la cultura del sacrificio con cui i nostri genitori, e prima di loro i nostri nonni, hanno superato due guerre e ricostruito l’Italia. Se siamo passati indenni nella deriva “tutto&subito” degli Anni 80 lo dobbiamo agli insegnamenti dei nostri vecchi: lavorare sodo, rimboccarsi le maniche, testa bassa e resistere. Nella convinzione che nessuno ti regala niente e che, a dirla tutta, è anche bello così.
Io credo in tutto questo e non vedo altro modo di conquistarmi le cose. Così ho fatto per la vela, il windsurf, il surf, il kite e oggi l’Hydrofoil. Ma potrei dire anche la laurea in legge, il lavoro di giornalista, la vita in Sicilia e tutte le mie piccole e grandi sfide personali.
Il kiter deve masticare sale…
Da istruttore di kitesurf ho avuto sottomano centinaia di allievi. Posso dire con certezza che chi davvero vuole salire su quella tavola e compiere la magia di planare sull’acqua alla fine ce la fa. Non sono io bravo. Sono loro, gli allievi, che semplicemente vogliono vincere e ce la mettono tutta per arrivare alla meta. Gli altri, altrettanto semplicemente, non lo vogliono abbastanza. Pensano che gli sia dovuto perché pagano le lezioni. Si annoiano subito, si distraggono, si spazientiscono, si arrendono al primo errore, vogliono essere serviti e riveriti, sono abituati a mollare. Sono figli di una cultura “usa e getta”.
E no, belli miei, non funziona così. Se volete il mare, ve lo dovete conquistare voi e non solo durante il corso. Il marinaio mastica sale, si dice, proprio come il kiter, anche quando naviga a pelo d’acqua…
David Ingiosi